La Sindrome di Partenope

L’opera di Lello Esposito, figura tra le più significative di una possibile tendenza etno-visionaria, è stata studiata da esperti internazionali d’arte, teatro, cinema, sociologia e antropologia. Che significa riconoscere la sostanziale inclassificabilità dell’ artista napoletano in termini strettamente critico-esegetici. Ma è proprio questa allargata misura creativa a fare il fascino di un lavoro originalissimo e straripante per invenzione formale, là dove l’ ossessione delle radici e dell’ appartenenza diventa uno stimolo a rappresentare e allo stesso tempo dissacrare quella “napoletanità” che è un po’ patrimonio culturale di tutti, folklore e retorica messi in conto. In questo senso Esposito ci dà una lezione salutare, restituendo allo straordinario repertorio iconografico della sua città una nuova valenza concettuale, a costo appunto di ribaltare le certezze che storia e tradizione hanno sedimentato nel nostro immaginario collettivo. Tra pittura, scultura e installazione, questa prima mostra bolognese di Esposito propone tutto un catalogo di immagini dove sacro e profano diventano complici di un gioco condotto al limite dell’ambiguità, quando l’archetipo referente è in grado di rivelare sempre la sua doppia anima. Ogni segno sembra convergere verso un progetto di rimozione che altro non è se non un atto d’amore deviato. Scrive a questo proposito in catalogo Giuliano Serafini, curatore della mostra che si intitola La sindrome di Partenope: “…E’ un paradosso.

Ad Esposito non resta che cominciare da una perdita. Non ha altra scelta. Napoli, la sua città, gli si nega nel momento stesso in cui è parte sostanziale del suo codice genetico. La capitale eletta da Stendhal gli è insomma troppo complice perché la sua ricognizione possa trasformarsi in racconto decifrabile, in aneddoto, in celebrazione: cioè quello che ci si potrebbe aspettare dall’esuberanza immaginifica di questo artista così naturalmente versato, secondo il capriccio del momento, per il graffito wild o per la figurina da presepe che lievita e cresce inquietante fino a farsi scultura monumentale. Ma un fatto è certo: Napoli si ritorce contro Esposito in una sorta di maledizione e iattura toccategli in sorte per parossismo sentimentale. Come dice l’Anonimo dell’Antologia Palatina : ‘Non dire mai l’amore. Lo perderesti con le parole…’” Tra le principali personali tenute da Lello Esposito ricordiamo quelle al Chiostro di San Domenico (Benevento, 1992), Institut Français (Napoli, 1993), Centre Pompidou (Parigi, 1994), Istituto Italiano di Cultura (Budapest, 1996), Certosa San Lorenzo Maggiore (Padula, 1996), Istituto Italiano di Cultura (Madrid, 1997), Kunstlerforum (Bonn, 1997), Istituto Italiano di Cultura (Berlino, 1998), Théâtre du Rond Point des Champs-Elysées (Parigi, 1999), Aeroporto G. Marconi (Bologna 2002), Villa Bruno (San Giorgio a Cremano, Napoli 2003), Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro (Venezia, 2004). Del lavoro di Esposito si sono occupati: Luisa Basile, Achille Bonito Oliva, Franz Cerami, Iain Chambers, Roberto D’Ajello, Vega De Martini, Goffredo Fofi, Carlo Franco, Giuliana Gargiulo, A. Marino, Aldo Masullo, B.Pompili, Edoardo Sant’Elia, Jean-Noël Schifano, Giuliano Serafini, Stefania Tondo, Angelo Trimarco, Lina Wertmüller.